Insegnare al principe di Danimarca

principe di danimarca

La prima volta che sentii questo titolo fu all’università, durante il corso di Psicologia dello Sviluppo II, e ammetto che non suscitò subito molta della mia curiosità.
La professoressa del corso, che ancora oggi considero una delle migliori della facoltà, ci menzionò questo testo, “suggerendocelo”: in sostanza, chi lo avesse letto, avrebbe avuto una facilitazione all’esame.

Diversamente dal solito, va detto, la professoressa non cercò di piazzarci questa opera perchè l’avesse scritta lei, nè in generale per un tornaconto personale, ma per supportare un’opera nella quale era coinvolta e in cui credeva fortemente.
Il progetto chance.

Maestri di strada

Il progetto chance è una delle iniziative dell’associazione “Maestri di strada”; fondamentalmente, questa associazione, senza scopo di lucro, raccoglie volontari che si attivano, nel territorio napoletano – ma con un’influenza che si estende ben oltre questo – per combattere la piaga dell’abbandono scolastico.
E non è poco, in effetti: una cosa di cui molti non si rendono conto, è che proprio la mancanza di un sistema scolastico efficiente, che fornisca una buona base di cultura e civilità a tanti bambini e neoadolescenti, è una delle cause prime della delinquenza minorile.
L’ignoranza e l’abbandono sono le fucine in cui vengono forgiati giovani “senza futuro”, che si sentono condannati da sempre e senza possibilità di riscatto, e che vedono nella vita criminale, nella violenza, nella lotta per la sopravvivenza con ogni mezzo, l’unica opzione valida di vita.

I maestri di strada intraprendono così una crociata contro questo fenomeno e, come accennavo, tra i tanti progetti e le molte iniziative, compare il “progetto chance”, che si proponeva, come scopo, di offrire una seconda chance, appunto, nel conseguimento di un obiettivo, per molti dei giovani cui era rivolto, apparentemente irraggiungibile: la licenza media.
Tra i turbolenti e difficili neoadolescenti che aderivano a chance, infatti, c’erano quelli che avevano abbandonato la scuola prima di arrivare all’esame di terza media, quelli che all’esame avevano fallito o quelli che erano stati bocciati tante volte prima dell’esame, da rinunciare.
Con chance, si offriva a questi giovani un percorso di studio specifico, cercando di creare un ambiente adatto e accogliente, che tenesse conto delle storie di estremo disagio da cui costoro provenivano; ci si proponeva di offrire loro una possibilità di avviamento professionale, percorsi di formazioni, assistenza di vario tipo per cercare, in qualsiasi modo, di offrire a questi ragazzi un’opportunità per essi utopica: la possibilità di vivere una vita “normale”, di essere persone vere, senza sentirsi scarti dell’umanità.
Una delle pioniere di questo progetto, e per molto tempo una colonna portante dei maestri di strada, fu Carla Melazzini.
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L’autrice

Carla Melazzini nacque nel 1944 e morì nel Dicembre del 2009. A una ricerca superficiale, queste sono le poche, scarne informazioni che subito emergono su di lei. Ma chi era Carla?
Quello che so dirvi, è che nacque molto lontano da Napoli e tutti i suoi problemi, ma negli anni’70, dopo molte esperienze, si trovò in questa realtà e qui, contro ogni logica, decise di piantare nuove radici e combattere, strenuamente, contro l’ignoranza dilagante, quell’ignoranza da cui nascono la paura e la disperazione, terreno fertile per abbandono e violenza.
Carla divenne un punto di riferimento del progetto Chance e si attivò sempre, senza sosta, anche quando la malattia iniziò a debilitarla, senza mai perdere fede nella possibilità di cambiare le cose, di aiutare quei ragazzini disperati e di aggiustare la realtà malata davanti ai suoi occhi.
Dopo la sua morte, il marito e compagno di sempre, Cesare Moreno, attuale presidente dell’associazione Maestri di strada, raccolse gli appunti e le notazioni di Carla, riunendole in quel piccolo saggio che è, appunto, “Insegnare al principe di Danimarca”.

Ma chi è il principe di Danimarca?

Questa è la prima domanda che tutti fanno. La risposta è semplice: il principe di Danimarca è Amleto, nella cui figura si proiettava uno dei casi che più Carla prese a cuore.
Si trattava di Mimmo, un quindicenne la cui madre aveva abbandonato la famiglia per un altro uomo. Mimmo, come Amleto, divenne ossessionato dalla necessità di uccidere quest’uomo, colpevole di aver distrutto la sua famiglia, e punire la madre traditrice.
Mimmo, per Carla, divenne un emblema di ciò contro cui lottava, del mondo di emozioni turbolente, negative, distruttive contro cui chance doveva andare.
Amleto era un giovane brillante, pieno di possibilità, e se non fosse stato trascinato dall’odio e dalla disperazione, probabilmente la sua esistenza sarebbe stata molto meno tragica; questo, in sostanza, il pensiero di Carla, l’idea che accompagna tutto il libro.
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L’opera

Di per sé, “Insegnare al principe di Danimarca” non è un romanzo, nè un libro completo ed effettivo.
Si tratta, come ho accennato, di una raccolta di pensieri, riflessioni, annotazioni ed episodi vergati da Carla nel corso degli anni; non c’è una sequenza cronologica precisa degli eventi, e gli appunti sono messi un po’ alla rinfusa, senza seguire uno schema efficace. Eppure, raggiunge inevitabilmente il segno: l’amarezza, l’amore disperato per questi ragazzi condannati alla nascita, il bisogno doloroso di credere che cambiare sia possibile, emergono con violenza da queste pagine.

La lettera

Il vero motivo per cui questa lettura mi resterà impressa, paradossalmente, è la riflessione cui fui “costretto” dalla professoressa Parrello, la docente di Psicologia dello Sviluppo II di cui accennavo all’inizio.
La Parrello venne infatti da noi un giorno invitandoci a scrivere una lettera alla signora Melazzini – all’epoca dei fatti morta da quasi tre anni – e lasciando intendere che questo piccolo esercizio avrebbe giovato al nostro esame.
Inizialmente la cosa mi indispose non poco, e fino all’ultimo ero, per qualche ragione, testardamente deciso a non scrivere quella lettera. Poi, alla fine, la sera prima della scadenza per le consegne, la scrissi.

Se il mio intento iniziale era di fare il buffone e buttare giù quattro parole a caso, mentre proseguivo mi scoprii più coinvolto di quanto avrei voluto, e alla fine scrissi qualcosa di più sentito di quanto avrei creduto possibile.
La professoressa parve apprezzare la cosa.
Dato che presumo che questa mia lettera possa raccontare dell’opera più di quanto sarei in grado di fare con una normale recensione, ho deciso di allegarla.

Cara Carla

Cara Carla.
Mi sembra un po’ strano salutarti così. Già di mio non ho l’abitudine di scrivere molte lettere, quindi puoi ben immaginare quanto per me possa essere innaturale scriverne una a una persona morta e che non ho mai conosciuto. Come molti miei colleghi, scrivere queste righe mi ha provocato non poche difficoltà: tra tutti noi, ritornavano le domande “sì, ma cosa le scrivo?” e “ok, ma di che dobbiamo parlare?”.
Del tuo libro? Saprai meglio di noi cosa c’è scritto, no?
Certo potremmo parlare delle nostre impressioni al riguardo. Presumo sia quello che faranno quasi tutti i miei colleghi impegnati in questa prova; tra l’altro, nel farlo, sentiremo tutti il bisogno di cercare di mostrarci originali, intelligenti e arguti, perché sappiamo che la nostra amata professoressa di sviluppo II, l’illustrissima professoressa Santa Parrello (l’autore della presente si inchina), la leggerà. La leggerà, capisci, quindi ognuno di noi sta pensando “Uhm, magari quando farò l’esame si ricorderà di me! E se dovesse trovare la mia lettera banale, stupida o scialba? Oh no!”; da qui parte il bisogno, come potrai intuire, di cercare non dico già di farci notare, quanto per lo meno di non farci odiare.
Presumo che ciò che dovrei scrivere è che leggere le tue memorie sul progetto Chance mi ha toccato nel profondo, che è una vergogna che si siano incontrati tanti ostacoli burocratici ed economici, che la storia di questi ragazzi sfortunati mi ha commosso. Beh, oddio, in parte è vero.
È vero che è stata una lettura interessante. Istruttiva, anche, di sicuro. Non per farti montare la testa, ma sappi che il tuo testo è l’unico non fotocopiato che ho comprato dall’inizio della mia carriera universitaria (se questa affermazione verrà fornita alla finanza, negherò tutto!).
Tuttavia, immagino di dover essere onesto e dire tutto quello che penso. No, non è che devo, è che voglio.
A un’analisi puramente tecnica da vero bibliofilo, ti dirò, il libro non è eccellente. È fondamentalmente una raccolta disordinata di pensieri e appunti, di memorie e immagini; non vi è un ordine narrativo, una sequenza visibile, un filo conduttore. Molti pensieri sanno di spezzato, di incompleto. Ma so che non è colpa tua: non è un romanzo, quanto un sunto della tua esperienza. Era solo una notazione perché sono critico, puntiglioso e pignolo nel valutare ciò che leggo.
Parlando del progetto in sé, quello che penso, e per cui molti mi hanno dato addosso quando ho esposto tale pensiero, è che un progetto del genere, ora come ora, è, passami il termine, donchisciottesco. Molto bello. Nobile. E utile, perché noi abbiamo bisogno di uno, anzi, tanti, don Chisciotte della Mancia. Però sempre di don Chisciotte si tratta.
Quello che penso, infatti, è che sperare che Chance, o anche altri progetti analoghi, possano cambiare realmente le cose, è come sperare di poter fermare il riscaldamento globale usando l’auto un’ora in meno al giorno. Come credere che tenere il rubinetto aperto un minuto in meno possa impedire la siccità globale dietro l’angolo. Come credere che, se finalmente voteremo la persona giusta, avremo all’improvviso, per magia, un governo saggio, giusto e onesto.
Usare meno l’auto è utile e saggio. Non sprecare l’acqua un’ottima abitudine, per carità! E votare un uomo onesto sarebbe bello, ma siamo sinceri: un politico onesto è un ossimoro quanto un sole freddo.
L’effetto serra potrebbe essere facilmente annullato se la società, nel suo complesso, riducesse le emissioni industriali di CO2 e –ancora più importante- riducesse l’opera di deforestazione e incrementasse quella di riforestazione. Allo stesso modo, sempre questa benedetta società dovrebbe ridurre gli sprechi d’acqua. Per quanto riguarda la politica, tuttavia, nemmeno in uno scenario ipotetico e utopico riesco a immaginare un politico onesto (non per cattiveria, eh!).
“Cosa c’entra tutto questo con Chance?” potresti chiedermi. C’entra.
Chance è una buona iniziativa. Aiuta alcuni ragazzi per un po’, alcuni riescono anche, magari, a emergere dal loro background così triste e crudele. Lascia magari un messaggio, una testimonianza. Bello, ma sinceramente non cambia la radice del problema.
Perché alla radice c’è il fatto che Napoli, la sua provincia, la sua regione, hanno subito una ferita da cui non si sono ancora ripresi. Napoli è nata come colonia, come regione di conquista. È stata dominata da tutti, prima o poi: sanniti, etruschi, greci, romani, celti, spagnoli, francesi, tedeschi, americani e presto, probabilmente, dai cinesi. In quasi tutte queste dominazioni, aveva luogo uno scambio: arrivavano i coloni, prendevano terra e risorse ma lasciavano, in cambio, case, lingue, persone. Arrivavano conquistatori che prendevano dei bottini e ne lasciavano degli altri o, più semplicemente, si innamoravano di sole, mare e sentimiento e ivi piantavano casa e cuore.
Ma non sempre è andata così. Alcuni conquistatori hanno preso e dato di più o di meno, nel tempo, finché, nell’ultimo secolo, non si è deciso che era meglio prendere tutto e non rendere niente.
Un secolo e mezzo fa queste terre furono invase, violate e saccheggiate. Stuprate, a dirla tutta. Non fraintendermi: non sono un neoborbonico, non sto dicendo che era meglio avere ancora un re, non voglio parlare di politica. Ma gli avvoltoi presero tutto, e non lasciarono niente. E quando dico tutto, e qui arriviamo alla nota dolente, intendo proprio tutto. A Napoli hanno portato via l’oro e la terra. Hanno portato via le opere d’arte. Nulla di insostituibile. Ma hanno portato via i nomi. L’orgoglio. La dignità. Hanno portato via, a questa città e a queste terre, la loro storia. Poi ci hanno convinti che eravamo delle bestie, che noi non meritavamo niente. Per assicurarsi che ce ne convincessimo si sono impegnati: hanno ucciso, percosso, umiliato chi diceva il contrario. E noi ce ne siamo convinti. Se ne sono convinti i nostri nonni, che hanno convinto i loro figli, che hanno convinto noi e i ragazzi su cui tu, Carla, hai investito sudore e sangue.
Il motivo per cui non posso credere che opere come il progetto Chance cambino tutto è che il substrato su cui si muovono è corrotto alla radice. Perché non c’è uno Stato (che di per sé, in Italia, è una figura tra il mitologico e l’horror) che si prenda i suoi impegni, che dia qualcosa a questa gente da cui poi pretende invece tutto. Sono certo che sia tu, Carla, che la nostra incantevole professoressa (qui l’autore esegue un altro inchino mostrando chiaramente di non avere alcuna intenzione di arruffianarsi la professoressa, che peraltro stima tantissimo) conosciate bene la teoria delle finestre rotte. Che conosciate anche meglio il concetto di impotenza appresa. Che sappiate che se ogni persona che dovessi incontrare per strada mi dicesse che sono un cavallo, tornato a casa mi metterei a mangiare biada.
So che il mio è un discorso pessimista, cinico, forse nichilista. Ma bada bene, non è disfattista! Non dico che non si può fare. Che non si può cambiare niente. No, al contrario! Io non vedo l’ora che le cose cambino; tuttavia, non sono un uomo d’azione. Non ti nascondo che credo davvero che la nostra società sia sull’orlo del precipizio, con le braccia slanciate e pronta a fare un gran balzo in avanti e che una buona soluzione sarebbe una rivoluzioncina (così, niente di speciale, ‘na cosetta da poco per capirci); tuttavia, non credo che sarò io il primo a scendere in strada con forcone e torcia urlando e chiedendo il pane.
E sai perché? Perché sono un fortunato: il pane è sulla mia tavola. Ho anche un PC (cosa che sono certo dedurrai dal fatto che lo sto usando per scriverti questa contorta e probabilmente inconcludente lettera). Così come i miei colleghi. Come quasi tutti attorno a me.
La cosa peggiore è che vale anche per i ragazzi cui hai dato così tanto: pur lamentando la miseria, trovano il modo di mangiare. Di procurarsi ‘o mezzo, di ingelatinarsi i capelli, di infilarsi scarpe Nike o Reebok ai piedi, di mandare SMS all’amico con l’I-Phone. Perché anche i loro genitori sono cascati nell’illusione che possedere cose sia importante. Sia fondamentale! E così non si ribellano. La camorra, la nostra vecchia amica, ha ovviamente interesse che questa idea persista: hai delle cose. Le puoi avere anche senza faticare, quindi perché farti scrupoli? È già tanto considerando che sei un cafone, che non sai e non vali niente.
Perché dovrebbero ribellarsi? Perché dovrebbero urlare e chiedere di più? Ripenso, per esempio, al ragazzino la cui madre ben pensò di far ingrassare per percepire la pensione di invalidità dallo stato, rammenti? I soldi arrivano. Anche questo mese campiamo. “Ammén!”
Non voglio comunque sminuire la tua opera. Come ho detto prima, noi abbiamo un – perdonami il francese – maledetto bisogno di cavalieri che, con la loro armatura rattoppata, sui loro stanchi cavalli da soma, carichino questi mulini a vento. Perché sai, la cosa terribile è che quei mulini sono davvero dei giganti! Ben travestiti, però, così solo i don Chisciotte riescono a capirlo, e a lottare, mentre noialtri ce ne stiamo dall’altra parte al sicuro.
Io non so se ho ragione. Non so se un giorno le cose cambieranno. Probabilmente tu non conoscerai mai questi miei pensieri, a meno che io non sbagli enormemente su quello che può esserci “dopo”. Quello che posso dirti, e chiaramente a questo punto non la dico davvero a te, e forse in realtà nemmeno alla venerabile (altro inchino) professoressa Parrello, bensì a me stesso, è che se mai un giorno ci salveremo (e non ne sono così certo) sarà solo perché un’altra idealista, e poi un’altra, e un’altra ancora avranno caricato, ignorando tutto e tutti, contro questo muro di niente che ci circonda, fino a lacerarlo e prima o poi i don Chisciotte saranno talmente tanti che a quel punto, cara mia, i folli saranno quelli che vedranno solo un mulino.

Personalmente sono agnostico, pertanto pur non credendo attivamente in un qualunque aldilà non posso escluderne l’esistenza. Spero quindi che, se esista un bel posto dall’altra parte, tu sia lì a spassartela un mondo alla facciaccia nostra. Credo che te lo sia meritata.

Ti saluto con l’affetto di uno sconosciuto, che spero sia abbastanza,.

Eli Daddio

P.S.
Un saluto anche alla professoressa, sperando apprezzi un po’ di sana sfacciataggine.

INFO

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